Sindrome metabolica in corso di artrite reumatoide: quanto, come e perché
Domenica 30 Marzo 2014
Fattore reumatoide positivo o presenza di anticorpi anti-peptide citrullinato aumentano il rischio di sviluppare una sindrome metabolica in corso di artrite reumatoide. L’idrossiclorochina (PlaquenilÒ, Sanofi-Aventis) sembra invece prevenirne l’insorgenza.
È quanto affermano la dott.ssa Salinas ed i colleghi medici di 9 fra i principali istituti ed ospedali sparsi sul territorio argentino, in un articolo pubblicato su Journal of Clinical Rheumatology (1).
L’aumentata mortalità riportata fra i pazienti con artrite reumatoide (AR) è stata attribuita a malattie cardiovascolari. La sindrome metabolica (SM) è un raggruppamento dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di malattie cardiovascolari; fra questi la dislipidemia, l’obesità, l’ipertensione ed il diabete.
In Argentina la prevalenza di MS in corso di AR non era mai stata valutata e, per tale ragione, i vari istituti e ospedali delle principali città del paese, coordinati dall’Hospital Privado di Córdoba, hanno aderito ad uno studio volto a determinare e comparare la frequenza della SM in pazienti affetti da AR e in un gruppo di controllo, nonché a determinarne i fattori associati.
Questo studio ha visto coinvolti 1033 soggetti, di cui 409 pazienti AR e 624 controlli confrontabili per età e sesso. I controlli inclusi nello studio avevano diagnosi di osteoartrosi, trauma muscoloscheletrico, lombalgia e fibromialgia. I pazienti con diagnosi di malattia reumatica infiammatoria erano stati esclusi.
La sindrome metabolica era stata definita secondo i criteri dell’Adult Treatment Panel III (ATP III) e della International Diabetes Federation (IDF).
Le variabili prese in esame spaziavano da quelle demografiche ai dati clinici. Fra questi in particolare la durata di malattia l’attività di malattia misurata attraverso il DAS28, la presenza di fattore reumatoide (FR) e/o anticorpi anti-peptide ciclico citrullinato (anti-CCP), la presenza di manifestazione extra-articolari e il trattamento farmacologico.
La frequenza di SM, definita secondo i criteri ATP III, era del 30% nel gruppo di pazienti affetti da AR e del 39% nel gruppo di controllo, del 35 e 40% rispettivamente, quando si applicavano i criteri della IDF. In entrambi i casi non è stata dunque osservata una maggiore prevalenza di sindrome metabolica nei pazienti con AR rispetto al gruppo di controllo.
Nei pazienti con AR, le variabili associate in maniera indipendente con la sindrome metabolica erano l’età (p=0,01 con criteri ATP III, p<0,001 con criteri IDF), la presenza di FR e/o anti-CCP (p=0,02 con entrambi i criteri), e l’uso di idrossiclorochina (p=0,04 con criteri IDF).
Gli autori precisano dunque di non essere stati in grado di dimostrare la più elevata frequenza di sindrome metabolica nei pazienti con AR. Tuttavia i dati in letteratura sono fra loro poco coerenti: alcuni studi confermano tale dato mentre altri lo smentiscono.
“Sebbene questa disomogeneità possa essere almeno parzialmente attribuita alle differenze (età all’inclusione nello studio, gruppo etnico, durata di malattia) in termini di disegno di studio e popolazioni esaminate, [lo studio] sembra confermare l’ipotesi che i fattori di rischio tradizionali potrebbero non essere sufficienti a spiegare la più alta frequenza di eventi cardiovascolari riscontrabili fra i pazienti con AR”, precisano gli autori.
Il valore aggiunto del lavoro è quello di aver osservato che “i pazienti più anziani con serologia positiva per AR erano più a rischio di sviluppare la SM”, aggiunge la dott.ssa Salinas. L’associazione di SM con l’età aumentata non sorprende visto che l’aumentare dell’età, in generale, determina un aumento della frequenza di comorbidità.
Quanto alla serologia, l’associazione fra la presenza di fattore reumatoide e/o anticorpi anti-citrullina ed una peggiore prognosi cardiovascolare era già stata riportata in un precedente lavoro (2). Inoltre la stessa presenza di anti-CCP, quando associata con il polimorfismo HLA-DRB1*04, determina un più alto rischio di malattie cardiovascolari (3).
Vi è comunque la necessità – spiegano gli autori – di valutare se la serologia positiva per AR non debba essere semplicemente considerata come un indicatore surrogato di una più grave attività malattia, ovvero caratterizzata da un prolungato stato infiammatorio, che predispone all’accentuarsi dei fattori di rischio cardiovascolari. Questa osservazione “necessita di essere corroborata da studi prospettici”.
Interessante inoltre l’aver osservato che l’idrossiclorochina possa rappresentare un fattore protettivo nei confronti dell’insorgenza di sindrome metabolica, sebbene anche in questo caso siano necessarie ulteriori indagini per poterlo confermare. Non è infatti possibile escludere un bias di indicazione, in quanto “i pazienti trattati soltanto con idrossiclorochina avevano una PCR più bassa ed erano fra loro più simili anche per altre caratteristiche di attività di malattia”. Tuttavia altri studi in precedenza hanno evidenziato come l’uso di DMARD, fra cui metotrexato e idrossiclorochina, sembrasse attenuare la prevalenza di SM.
L’idrossiclorochina in particolare sembra agire attraverso diversi pathways, fra cui la modifica del profilo lipidico e la riduzione della pressione diastolica (4). Inoltre è stato suggerito che l’idrossiclorochina possa anche ridurre l’incidenza di diabete nei pazienti con AR (5).
Tuttavia gli autori preferiscono non trarre conclusioni affrettate, in quanto lo studio no era stato disegnato con l’obiettivo di valutare l’effetto protettivo dell’idrossiclorochina sullo sviluppo della sindrome metabolica. Francesca Sernissi Torna all'archivio