Terapia

Rituximab, repetita iuvant nell'Ar resistente

Con rituximab ritentar non nuoce, anzi, aiuta. È il messaggio che emerge da uno studio inglese in cui la maggior parte dei pazienti con artrite reumatoide (Ar) resistente che non avevano risposto a un primo ciclo di trattamento con l'anticorpo monoclonale hanno mostrato un miglioramento clinico quando sono stati trattati col farmaco una seconda volta.  I risultati del trial, coordinato da Paul Emery, dell'Università di Leeds, sono pubblicati sul numero di maggio di Arthritis & Rheumatism.

In questo studio, sei mesi dopo il secondo ciclo di terapia, sono stati osservati miglioramenti significativi degli indici di attività della malattia sia rispetto ai valori basali sia a quelli misurati immediatamente prima del ritrattamento (P < 0,001 in entrambi i casi). Inoltre, quasi i tre quarti dei pazienti hanno avuto una risposta buona o moderata in base ai criteri EULAR.
Nell'Ar, rituximab è indicato nei pazienti che non rispondono ai DMARD tradizionali come il metotrexate o agli anti-TNF alfa. Di conseguenza, i soggetti che non rispondono nemmeno a questo biologico hanno esaurito tutte le opzioni terapeutiche disponibili e il loro trattamento rappresenta una vera sfida per il reumatologo.


Inizialmente si pensava che l'anticorpo portasse a una deplezione completa dei linfociti B periferici e che la mancanza di riposta in alcuni pazienti potesse riflettere la presenza di meccanismi indipendenti dalle cellule B. Tuttavia, la messa a punto di metodi più sensibili per misurare il livello di linfociti B circolanti, quali la citometria a flusso ad alta sensibilità, hanno dimostrato che non è così. Questa metodica ha infatti evidenziato che quasi tutti i pazienti non responder presentano una deplezione incompleta dei linfociti B, specie a livello sinoviale.
Per vedere se un ulteriore ciclo di trattamento potesse aumentare questa deplezione e portare a una risposta clinica, gli autori inglesi hanno trattato 25 pazienti con Ar non responder con due infusioni da 1 g l'una di rituximab almeno sei mesi dopo il primo ciclo di trattamento, dopo le prime due infusioni ma prima che si verificasse il ripopolamento dei linfociti B. Per essere classificati come responder secondo i criteri EULAR, i pazienti dovevano ottenere una variazione significativa degli indici di attività della malattia e avere una bassa attività di malattia.
Nei non responder al primo ciclo di rituximab, i livelli basali dei linfociti B totali e di tutti i sottotipi di linfociti B circolanti (naive, della memoria, preplasmacellule) erano elevati. Tre mesi dopo la fine del primo ciclo, la maggior parte delle cellule rimaste erano preplasmacellule. Sei mesi dopo il secondo ciclo di terapia, il 38% dei pazienti ha mostrato una deplezione completa dei linfociti B contro il 9% dopo il primo ciclo. Dopo il ritrattamento, il 72% dei pazienti sono stati classificati come responder, il 32% ha avuto una buona risposta e il 16% ha raggiunto la remissione.
In entrambi i cicli di terapia, si è osservata una risposta buona o moderata nel 50% dei pazienti con una deplezione completa dei linfociti B contro il 31% di quelli che presentavano una deplezione incompleta.

Nove dei pazienti che hanno riposto al secondo ciclo di terapia hanno avuto una ricaduta, in media 11 mesi dopo il trattamento.
Questi risultati hanno varie implicazioni per comprendere il ruolo dei linfociti B nell'Ar, per l''impiego di terapie efficaci contro queste cellule e per lo sviluppo di un approccio razionale per la gestione dell'Ar resistente, scrivono gli autori nell'articolo. Per esempio, a differenza dei linfociti B naive e della memoria, le preplasmacellule non esprimono l'antigene CD20, a cui si lega rituximab, e pertanto non sono un  bersaglio diretto dell'anticorpo. Inoltre, spiegano i ricercatori, la persistenza delle preplasmacelule in circolo suggerisce l'esistenza di un'attività continua delle cellule B in siti quali la sinovia, oltre al fatto che i non responder potrebbero avere una maggiore infiltrazione tissutale dei linfociti B.
In ogni caso, il riscontro che un ritrattamento con rituximab potesse aumentare la deplezione dei linfociti B è un risultato non del tutto atteso. Infatti, per spiegare la deplezione inadeguata dei linfociti dopo un primo trattamento con l'anticorpo sono stati chiamati in chiamati in causa diversi meccansimi, e non tutti avrebbero potuto essere aggirati aumentando le dosi di farmaco. Per esempio, è stato dimostrato che polimorfismi del recettore Fcy influenzano il grado di deplezione leucocitaria durante il trattamento con rituximab del linfoma e del lupus eritematoso sistemico (quest'ultimo off-label). Gli effetti di questi polimorfismi non sono ancora stati indagati nell'Ar, ma potrebbero avere un ruolo anche in questo caso.


Altre strategie da esplorare nei non responder potrebbero essere l'uso di un agente diverso attivo contro i linfociti B o una dose diversa di farmaco durante il primo ciclo. "I nostri risultati" affermano gli autori inglesi "indicano che gli approcci attuali non hanno sfruttato appieno le potenzialità delle terapie mirate alla deplezione dei linfociti B e, di conseguenza, che i pazienti in grado di beneficiarne se il loro uso fosse perfezionati sono più numerosi di quanto si pensasse".

Vital E, et al. Management of nonresponse to rituximab in rheumatoid arthritis: predictors and outcome of re-treatment. Arthritis Rheum 2010;62:1273-79
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