Un ampio studio longitudinale pubblicato sul numero di luglio di Arthritis&Rheumatism mostra che i pazienti affetti da lupus eritematoso sistemico (LES) che avevano bassi livelli di vitamina D e sono stati trattati con la vitamina hanno visto ridursi la probabilità di avere una malattia altamente attiva.
Nei pazienti con livelli di 25-idrossivitamina D [25(OH)D] inferiori a 40 ng/ml, un incremento di 20 unità si è associato a una diminuzione di 0,04 punti del punteggio relativo all’attività della malattia valutata dal medico (IC al 95% da -0,08 a – 0,01; P = 0,026), pari a una riduzione del 13% della probabilità di avere un punteggio uguale o superiore a 1 (range da 0 a 3), indice di malattia attiva.
Da un po’ di tempo c’è un interesse crescente per il ruolo della vitamina D in varie condizioni patologiche, tra cui le malattie autoimmuni come il diabete, l'artrite reumatoide e il lupus eritematoso sistemico. In particolare, diversi studi hanno suggerito un possibile collegamento tra i livelli di vitamina D e LES, potenzialmente correlato all’inadeguata esposizione al sole che spesso caratterizza questi pazienti, per via della loro fotosensibilità.
La carenza di vitamina D è associata alla produzione di autoanticorpi, spiegano gli autori nella loro introduzione, che è parte integrante della patogenesi del LES. Vi è quindi grande interesse per il ruolo della vitamina D sia nella patogenesi sia nel decorso della malattia. Tuttavia, gli studi fatti finora hanno evidenziato sia vantaggi sia svantaggi della supplementazione con la vitamina D in condizioni come il cancro del colon-retto, le malattie cardiovascolari e quelle renali.
Per esplorare il potenziale della vitamina D nel LES, i ricercatori (un gruppo della Johns Hopkins University di Baltimora) hanno condotto uno studio durato 2 anni che ha coinvolto 1006 pazienti dell’Hopkins Lupus Cohort (uno studio longitudinale che sta indagando sulla morbilità e la mortalità legata alla malattia), sottoposti alla misurazione dei livelli di 25(OH)D ad ogni visita di controllo.
I pazienti i cui valori di 25(OH)D erano inferiori ai 40 ng/ml sono stati trattati con somministrazioni settimanali di 50.000 unità di vitamina D insieme con un’integrazione di 200 unità al giorno di calcio/vitamina D3.
Oltre all’attività della malattia valutata dal medico, gli autori hanno valutato anche la versione SELENA (Safety of Estrogens in Lupus Erythematosus National Assessment) dell’indice SLEDAI (Systemic Lupus ErythematosusDisease Activity Index), il rapporto proteine/creatinina nelle urine e i marker sierologici.
I pazienti erano soprattutto donne, con un’età media di 50 anni, e i tre quarti avevano livelli insufficienti di 25(OH)D dall'inizio dello studio. La prevalenza dell’ipovitaminosi D raggiungeva l'85% tra gli afroamericani (P < 0,0001) il 79% nella fascia di età tra i 30 e i 60 anni di età (P = 0,0070).
I soggetti, i cui valori di 25(OH)D inizialmente erano inferiori a 40 ng/ml, ma sono aumentati di 20 unità grazie all’assunzione degli integratori hanno mostrato una diminuzione dell’indice SELENA-SLEDAI di 0,22 punti (IC al 95% da -0,41 a 0,02; P = 0,032), pari a una riduzione del 21% del rischio di avere un punteggio SLEDAI pari a 5 o più alto.
Un aumento di 20 unità, inoltre, si è associato a un calo del 2% del rapporto proteine/creatinina (IC al 95% da -0,03 a 0,01; P < 0,0001), corrispondente a una riduzione del 15% del rischio di avere un rapporto superiore a 0,5 (IC al 95% 2-27), o "una proteinuria clinicamente importante”.
Dopo aver aggiustato i dati in base all'uso o meno di farmaci immunosoppressori e ACE-inibitori, l'incremento di 20 ng/ml è risultato associato a un calo del 4% del rapporto proteina/creatinina (IC al 95% 2-5) e con un’ulteriore riduzione del 15% (IC al 95% 1-28) della possibilità di avere un rapporto superiore a 0,5.
Secondo gli autori, “il miglioramento della proteinuria, anche se modesto (come quello trovato nello studio) potrebbe avere implicazioni cliniche". Tra queste, ci sono un minor di rischio di progressione verso una nefropatia cronica e la riduzione dei costi diretti dell’assistenza sanitaria e della perdita di produttività associata al coinvolgimento renale.
Gli aumenti dei livelli di 25(OH)D, invece, non sembrano influenzare i risultati sierologici come i livelli di C3 e C4 del complemento o degli anticorpi anti-DNA a doppia elica. Un dato che ha sorpreso i ricercatori, perché la carenza di vitamina D è risultata associata con la cosiddetta ‘signature’ del gene dell’interferone, che, a sua volta, è "fortemente associata" con i marker sierologici.
Il team della John’s Hopkins, continuerà a seguire i pazienti della coorte e monitorare i livelli di 25(OH)D, e conclude che varrebbe la pena di fare studi clinici controllati e randomizzati sull’effetto della supplementazione con la vitamina D nei pazienti con LES. In attesa che tali studi si facciano e dimostrino chiaramente un beneficio dell’integrazione, i medici dovrebbero mantenere un atteggiamento di cautela, “viste le polemiche ancora aperte sul ruolo del calcio e vitamina D nelle malattie cardiovascolari” concludono gli autori.
M. Petri, et al. Vitamin D in systemic lupus erythematosus: modest association with disease activity and the urine protein-to-creatinine ratio" Arthritis Rheum 2013; 65:1865-71. Doi: 10.1002/art.37953.
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