Vitamina D e longevità: esiste un legame? Primi dati dallo studio HEBE
Martedi 2 Maggio 2017
Che la vitamina D sia dotata di effetti extra-scheletrici oltre che dei noti effetti sull'osso (per i quali è oggi effettivamente impiegata) è noto da tempo in letteratura. Gli effetti presunti della vitamina D sulla longevità, al contrario, sono oggetto di studio solo recentemente e con risultati ancora contraddittori.
Ciò premesso, può essere la vitamina D il fattore chiave in grado di spiegare la longevità di alcune piccole popolazioni sparse a macchia di leopardo in alcune zone del nostro Continente e della nostra penisola?
A queste domande ha cercato di rispondere uno studio organizzato dal CreI e presentato nel corso di una conferenza stampa a latere dei lavori del congresso dei reumatologi italiani, appena conclusosi a Roma.
I risultati preliminari di questo studio, condotto sulla popolazione residente in un paesino del Sannio (S. Marco dei Cavoti – BN), noto per l'elevata prevalenza di individui ultra90enni sembrano avvalorare questa ipotesi, anche se necessitano di ulteriori conferme che verranno dall'analisi dei dati del campione di individui reclutati nello studio e dal completamento dell'analisi genetica.
Gli effetti extra-scheletrici documentati con la vitamina D sono molteplici; sono necessarie, tuttavia, conferme dell'esistenza di un rapporto causa-effetto Come ha ricordato nel corso della conferenza stampa il prof. Maurizio Rossini, alla base dell'ipotesi a favore di un ruolo fisiologico della vitamina D che va ben al di là dell'osso e del muscolo vi è, innanzitutto, la dimostrazione dell'ubiquitarietà del recettore della vitamina (VDR), che è presente in quasi tutti i tessuti, oltre a ossa e muscolo.
In secondo luogo, esistono numerose evidenze in letteratura che dimostrano come la vitamina D controlli l'espressione di numerosi geni con azioni extra-scheletriche: le mutazioni a carico di questi geni: tra questi ve ne sono alcuni la cui mutazione o la presenza di polimorfismi correla con un aumento del rischio di insorgenza di alcune malattie quali il diabete di tipo 1, la malattia di Crohn, il lupus eritematoso sistemico, il carcinoma del colon-retto, l'artrite reumatoide e la sclerosi multipla.
Anche il polimorfimo genetico di VDR condiziona l'incidenza di alcune malattie: a tal riguardo esistono studi che hanno dimostrato l'esistenza di correlazioni tra questi polimorfismi e la frequenza di cadute, l'insorgenza di lupus e il titolo anticorpale di fattore reumatoide in pazienti affetti da artrite reumatoide.
Tutto questo si spiega con il fatto che l'attivazione della vitamina D, contrariamente a quanto creduto fino ad un decennio fa, non avviene solo a livello epatico o renale ma anche a livello di molte altre cellule e in ragione del fatto che la vitamina D sembra essere dotata di effetti autocrini, paracrini ed endocrini non solo calciotropi.
Gli effetti extra-scheletrici della vitamina D, postulati nell'uomo dagli studi sperimentali sopra indicati, derivano da studi osservazionali che, pur tra grossi limiti, mostrano l'esistenza di un'associazione tra livelli adeguati di vitamina D da un lato e la riduzione di eventi morbosi (malattie cardiovascolari, diabete, alcuni tumori (es: intestino) e della mortalità dall'altro.
A quest'ultimo riguardo, una metanalisi Cochrane che ha analizzato l'effetto della supplementazione di vitamina D nell'adulto, ha dimostrato come la vitamina D3 sembrerebbe essere in grado di ridurre la mortalità (sia pure in termini percentuali limitati - 6%) nella persone anziane dimoranti presso strutture residenziali protette mentre, al contrario, sia la vitamina D2, l'alfacalcidiolo e il calcitriolo non sembrano avere un effetto statisticamente significativo sulla mortalità.
In letteratura, ha aggiunto il prof. Rossini, esistono documentazioni convincenti di un beneficio della vitamina D sui valori di pressione arteriosa e in termini di riduzione della mortalità (in particolare di quella cardiovascolare), come pure vi sono dati molto interessanti di un beneficio della vitamina in termini di prevenzione o riduzione di attività di malattia nella sclerosi multipla e nel diabete. Al contrario, non sono ancora ritenuti sufficienti i dati relativi al rischio di insorgenza di tumori o di altre patologie extra-scheletriche.
Pertanto, aggiunge il prof. Rossini, esiste un notevole background di razionale fisiopatologico, nonché molti studi osservazionali di associazione, ma non è ancora chiaro se sia la carenza di vitamina D a provocare la malattia o sia invece la malattia ad indurre la condizione di insufficienza vitaminica.
Infine, sono ancora oggi decisamente poco nuemerosigli studi di intervento sull'effetto della supplementazione vitaminica D.
A tal riguardo, sono attualmente in corso alcuni studi clinici che hanno come obiettivo quello di verificare i benefici extra-scheletrici della vitamina D supplementata, condotti con dosi di vitamina D decisamente superiori di quelle normalmente utilizzate nell'osteoporosi – da 2.000 UI/die a 200.000 UI/settimana. Di questi studi, alcuni sono in dirittura d'arrivo per la fine dell'anno in corso.
Obiettivo dello studio Hebe – verificare un ruolo della vitamina D come fattore in grado di giustificare la particolare longevità della popolazione residente in un paese del Sannio
Razionale fisiopatologico Come ha ricordato nel corso della conferenza stampa il dott. Stefano Stisi (presidente del CreI), è noto come in Europa esistano, dislocate a macchia di leopardo, delle piccole comunità dove il numero di centenari (o ultra-90 enni) è superiore a quello della media nazionale dei singoli paesi.
L'obiettivo dello studio osservazionale Hebe – il cui disegno è stato concepito lo scorso anno in occasione del Summer CreI, la settimana di formazione e di aggiornamento dei giovani reumatologi (under 40) afferenti all'associazione - è stato quello di studiare i fattori (vitamina D in primis ma anche stile di vita ) in grado di incidere sulla qualità dell'invecchiamento della popolazione.
Il razionale di questo studio è stato sostanzialmente suggerito dalla lettura di due lavori che avevano indagato il rapporto tra la vitamina D e la longevità, giungendo a risultati opposti.
Il primo, noto come “the Leiden Longevity Study” e pubblicato su Cmaj, condotto sui familiari di un ampio gruppo di ultra90enni, aveva dimostrato come la longevità familiare fosse associata a bassi livelli di vitamina D e a una minore frequenza di una variazione allelica nel gene Cyp2R1, associata proprio a più alti livelli di vitamina D.
Il secondo studio, condotto in Iran su due popolazioni eterogenee, una costituita da soggetti ultra65enni residenti in ospizi dislocati in un'area periferica del Paese (n=166), l'altro da individui giovani adulti (n=562) – residenti in aree ad elevato tasso di urbanizzazione, aveva dimostrato come il polimorfismo Fok1 del gene vdr fosse associato (in concordanza con altri studi) alla riduzione dell'aspettativa di vita e, in particolare, sul declino cognitivo, suggerendo la necessità di seguire con maggior attenzione gli individui portatori del fenotipo omozigote recessivo del polimorfismo in questione, al fine di prevenire le conseguenze negative sopra citate.
Entrambi gli studi, tuttavia, ha continuato il dott. Stisi - erano gravati da alcune limitazioni: il primo di questi, infatti, non c'erano elementi che potessero portare a concludere che chi ha bassi livelli di vitamina D vive di più e che i longevi hanno raggiunto la loro età in seguito ai bassi livelli di vitamina D.
Quanto al secondo studio, i limiti riscontrati derivavano dall'aver selezionato due popolazioni (giovani e anziani) in aree diverse dal paese e dalla selezione di una popolazione anziana (residenti ospizio) non rappresentativa di tutta la popolazione anziana iraniana.
Di questi limiti, ha concluso il dott. Stisi, si è cercato di tener conto in fase di implementazione del disegno del nuovo studio.
Disegno dello studio e popolazione campione Lo studio Hebe, dal nome della dea greca dispensatrice del nettare dell'eterna giovinezza, ha concentrato la sua attenzione sulla popolazione di S. Marco dei Cavoti, un paese del beneventano di 3.500 abitanti, dediti per lo più all'agricoltura e all'allevamento, dove da tempo si riscontra nella popolazione un numero elevato di centenari.
Come ha ricordato il dr. Giovanni Rossi, sindaco (e MMG) della località del Sannio, a fronte di un dato di mortalità della regione Campania non proprio esaltante (la Campania è attualmente all'ultimo posto per aspettativa di vita tra le regioni italiane, pur mantenendo un trend crescente), e di un dato intra-regionale che vede le province di Avellino e Benevento ai primi posti in Campania per aspettativa di vita, nel comune di S. Marco dei Cavoti il numero degli ultra80enni è il doppio della media nazionale (8 su 100 vs 4 su 100), con poche differenze tra i due sessi.
Inoltre, mentre nel 2015 l'Italia si è classificata, dopo Grecia, Portogallo, Francia e Spagna, tra le 5 nazioni con il tasso più elevato di ultracentenari (il numero dei centenari è stato pari allo 0,03% della popolazione), gli ultracentenari residenti a S. Marco dei Cavoti sono risultati in percentuale ancora superiore a quelli presenti in Grecia (0,058% vs 0,056%).
Lo studio ha suffidiviso le persone arruolate in due gruppi: uno costituito da ultra90enni e dai loro figli ultra60enni, l'altro da ultra60enni che da tre generazioni non annoveravano novantenni in famiglia.
A tutti gli 'arruolati' nello studio è stato sottoposto un questionario con domande sulle abitudini alimentari, relazionali, sulle caratteristiche socio-economiche e culturali. Inoltre i membri di entrambi i gruppi sono stati sottoposti a prelievo ematico, finalizzato alla tipizzazione genotipica del gene vdr e alla misurazione dei livelli circolanti di vitamina D . Tutti i dati raccolti (compresi anche quelli relativi al rapporto tra le comorbilità e le altre malattie dell'invecchiamento, nonché allo stile di vita) sono confluiti in un ampio database, dal quale sono stati estrapolati i dati per le successive elaborazioni.
Risultati preliminari Nel presentare i risultati preliminari attualmente disponibili, il dott. Stisi ha ricordato che questi si riferiscono a 114 soggetti ultra60enni, aventi un'età media di quasi 80 anni, distribuiti praticamene in modo equo tra i 2 sessi. D i questi 114 individui, 81 (pari al 71%) avevano anamnesi di longevità mentre 33 (29%) appartenevano al fenotipo opposto. Esaminando i livelli sierici di vitamina D, è emerso che, nonostante l'assenza di significatività statistica tra i gruppi, i longevi avevano livelli di vitamina D leggermente più bassi rispetto ai non longevi (18,92% vs 23,10%; p=0,086).
Per quanto riguarda la stratificazione degli individui dei 2 gruppi in base ai livelli sierici ottimali di vitamina D, è emerso che, mentre nei soggetti al di sotto dei 90 anni lo status vitaminico D maggiormente rappresentato era costituito dalla condizione di carenza vitaminica (76%), in quelli ultra90enni era la condizione di grave carenza vitaminica (61%) ad essere maggiormente presente. In particolare, è emerso che la condizione di grave carenza vitaminica è passata dal 4% negli individui al di sotto dei 90 anni al 61% negli ultra90enni.
Dai dati è emerso anche che i soggetti longevi avevano un peso corporeo (parametrato come BMI) nettamente inferiore rispetto ai non longevi. In particolare, nei soggetti non longevi (classe di età 60-90), l'obesità è risultata essere presente nel 31% dei casi, mentre nei longevi è stata pari alla metà - 16% dei casi (p=0,0001)
L'analisi del polimorfismo VDR Fok1 (i dati attualmente disponibili fanno riferimento a circa 1/3 del campione totale, rappresentato dai longevi) ha rilevato la presenza del fenotipo ff recessivo solo solo nell'8% dei casi, a fronte di un 50% di individui ultra90enni portatori di quel polimorfismo (FF= omozigote dominante) che sembra garantire una maggiore longevità.
Dai dati relativi alle ore di sonno, stratificati in base alla classe di età, è emerso che i pazienti longevi (ultra90enni) dormono di più rispetto a quelli non longevi (8h vs. 6 h).
Non è stata documentata, invece, l'esistenza di una correlazione tra i livelli sierici di vitamina D e il polimorfismo Fok1 (p=0,941).
Le questioni aperte Perchè lo studio possa considerarsi completato, ha precisato il dott. Stisi, mancano ancora i dati genetici del gruppo non longevo per definire la differenza tra ultra90enni, i longevi non older e i longevi older, nonché quelli relativi alle correlazioni tra i livelli sierici di vitamina D e il polimorfismo VDF Fok1 nei non longevi e tra i parametri della QoL e la genetica.
A quest'ultimo riguardo il dott. Stisi ha aggiunto che, accanto al ruolo della vitamina D (che risulta suffragato da questi risultati preliminari) bisogna approfondire il contributo che uno stile di vita sano e meno stressante rispetto alla vita cittadina, unito ad un'alimentazione più equilibrata, possono aver dato all'aumento dell'aspettativa di vita di questa popolazione.
Sarà interessante valutare la messa a punto di studi che possano determinare, in un prossimo futuro, il fabbisogno vitaminico ottimale per ottenere i benefici extra-scheletrici sopracitati e verificare se, accanto al polimorfismo studiato dei geni legati al VDR, vi siano altri geni coinvolti nella longevità, come quelli rilevati in altri studi analoghi condotti in Italia e in Europa sulle popolazioni longeve, la cui espressione risulta essere condizionata dai livelli di vitamina D.