Più della metà dei pazienti afferenti ad un’ampia coorte di individui affetta da lupus è andata incontro a perdita involontaria di peso. Lo dimostrano i risultati di uno studio recentemente pubblicato su Arthritis Care & Research che evidenziano come la cachessia rappresenti una condizione poco considerata (a torto) nei pazienti con lupus, anche perché i pazienti lupici con cachessia intermittente si caratterizzano, stando allo studio, per un maggior rischio di danno d’organo successivo.
Razionale e disegno dello studio La cachessia differisce dal digiuno e dalla malnutrizione, condizioni che possono tempestivamente essere risolte con una nutrizione adeguata. E’ una condizione comune a molte condizioni patologiche, dal cancro all’insufficienza cardiaca e alla Bpco, associandosi ad alterazioni funzionali, perdita di qualità della vita e mortalità.
La ridotta disponiblità di dati sulla prevalenza o l’impatto della cachessia nel lupus ha sollecitato la messa a punto di questo studio, nel corso del quale sono stati analizzati i dati relativi a 2.452 pazienti reclutati in una coorte di pazienti lupici Usa tra il 1987 e il 2016, dei quali erano noti i dati ponderali registrati in concomitanza con ciascuna visita medica di controllo. Il follow-up aveva una durata media di 7,75 anni. I pazienti, in base al peso, sono stati categorizzati in: - Basso peso corporeo (BMI<20) - Normopeso (BMI= 20-24.9) - Sovrappeso (25-29,9) - Obesi (30-34,9) - Severamente obesi (> 35)
La cachessia era definita come una perdita di peso del 5% in 6 mesi in assenza di digiuno/dieta rispetto al peso medio rilevato nelle visite precedenti oppure come una perdita di peso percentuale uguale o superiore al 2% in aggiunta ad un BMI<20.
I ricercatori hanno valutato il rischio di cachessia a 5 anni dall’ingresso nella coorte di pazienti in base alle curve di Kaplan Meier, mentre hanno determinato con l’analisi di regressione di Cox l’associazione tra le manifestazioni pregresse di malattia con il rischio di cachessia, previo aggiustamento dei dati in base all’impiego corrente di steroidi. Da ultimo, è stata effettuata un’analisi per determinare se i punteggi dell’indice di danno d’organo SLICC/ACR variassero in base allo stato della cachessia.
Risultati principali A 5 anni dall’ingresso nella coorte di pazienti lupici, il 56% dei pazienti ha sviluppato cachessia e il 18% di questi non ha più recuperato peso durante il follow-up.
I fattori di rischio di cachessia a 5 anni erano dati da un BMI<20, dall’impiego corrente di steroidi, dal riscontro di vasculite, nefrite lupica, sierosite, nonché dalla positività ad anti-dsDNA, anti-Sm e anti-RNP.
I ricercatori hanno considerato, poi, l’associazione tra la cachessia intermittente o continua e il danno d’organo successivo. I risultati hanno mostrato che i pazienti la cui cachessia era intermittente mostravano un innalzamento del rischio di danno d’organo (cataratta, variazioni a carico della retina, atrofia ottica, neuropatia periferica, eventi cerebrovascolari, fibrosi della pleura, angina, artrite erosiva, osteoporosi e necrosi avascolare.
Quelli con cachessia continua, invece, presentavano un innalzamento del rischio di un eGFR<50, proteinuria >3,5 g/die e nefropatia allo stadio finale.
Implicazioni dello studio Nel commentare i risultati, i ricercatori hanno notato l’esistenza di un parallelo tra la cachessia tumorale e quelle lupica: “Il 56% dei pazienti lupici, infatti, era simile, come dato di prevalenza, al 56% osservato per la prevalenza della cachessia tumorale, per quanto i pazienti oncologici si caratterizzino più frequentemente per il riscontro di cachessia continua”.
“E’ probabile – continuano i ricercatori – che il tasso elevato di recupero osservato in questo studio dipenda da un miglioramento dell’attività di malattia e da una riduzione dell’infiammazione sistemica, un concetto ancora oggetto di controversie nella cachessia tumorale”.
Per quanto i meccanismi specifici associati alla cachessia nel lupus non siano stati ancora determinati, si ritiene che alcuni mediatori pro-infiammatori secreti dai tumori siano coinvolti anche nella patogenesi della forma lupica, includendo le IL-1, IL-6, IL-11 e IL-17, nonché TNF-alfa, interferone gamma e oncostatina M.
“A questo punto – concludono i ricercatori – sono necessari studi ulteriori che approfondiscano le implicazioni della cachessia in termini di risposta al trattamento, outcome a lungo termine, qualità della vita, come pure il ruolo della cachessia come fattore di rischio CV potenziale nel LES”.
Tra i limiti metodologici intrinseci dello studio si segnala l’impiego del BMI nell’analisi del peso, che non riflette la composizione corporea tra grasso e muscoli.
Nicola Casella
Bibliografia Stojan G, et al "Cachexia in systemic lupus erythematosus: risk factors and relation to disease activity and damage" Arthritis Care Res 2020; DOI: 10.1002/acr.24395. Leggi