Italia, un Paese sempre più anziano e sempre meno aderente alle terapie
Lunedi 22 Aprile 2019
Antonella De Minico
Subito dopo la Svezia, siamo il Paese più longevo in Europa. La speranza di vita alla nascita in Italia, secondo i dati dell’ultimo rapporto Osservasalute, è di 80,3 anni per gli uomini e di 84,9 per le donne. La media europea è, rispettivamente, di 77,9 e di 83,3. Se ci fermiamo qui, potrebbe essere una buonissima notizia. Ma se non rapportiamo questi numeri alla qualità di vita, i dati finora citati lasciano il tempo che trovano. Esaminando la qualità di vita senza limitazioni, infatti, si osserva che un over 65 su 3 non è autosufficiente. Vale a dire che più del 30% degli italiani non è in grado di usare il telefono, di prendere le medicine in autonomia, prepararsi i pasti, fare la spesa e gestire il ménage domestico. Le proiezioni per il 2028 sono ancora meno rosee e “indicano che tra gli over 65 le persone non in grado di svolgere attività quotidiane per la cura di se stesse saranno circa 1,6 milioni, mentre quelle con problemi di autonomia arriveranno a 4,7 milioni”. Tra queste ci sono i malati reumatici, che nel nostro Paese sono più di 5milioni, interessati da circa 150 patologie, molte delle quali caratterizzate da dolore cronico. Malattie invalidanti, quindi, che compromettono la qualità di vita professionale, relazionale, famigliare. Spesso, già a partire dalla giovane età. Malattie che richiedono una buona aderenza alle terapie, atto che avrebbe un duplice vantaggio: un beneficio per il benessere del malato e un maggiore risparmio di costi per il Servizio Sanitario Nazionale.
Ed eccolo qui l’altro però da considerare e su cui riflettere in modo corale. Stando a quanto riportato dal CIAT, il Comitato italiano per l’aderenza alla terapia, che riunisce società scientifiche, medici (FNOMCeO, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), farmacisti (Federfarma), infermieri (FNOPI, Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche), Istituzioni e associazioni di pazienti, solo il 50% dei pazienti avanti con gli anni segue in modo corretto quanto prescritto dal medico, l’altra metà, invece, lo fa con discontinuità o abbandona la cura dopo un breve periodo.
Ma che cosa vuole dire esattamente aderenza alla terapia? Secondo l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, con questa espressione si intende “il grado in cui il comportamento di una persona – nell’assumere i farmaci, nel seguire una dieta e/o nell’apportare cambiamenti al proprio stile di vita – corrisponde alle raccomandazioni concordate con i sanitari”. E con ciò si intende l’attitudine della persona a conformarsi alle raccomandazioni del curante, in tutti quei comportamenti che concorrono alla piena adesione del percorso di cura, dalle prescrizioni farmacologiche al follow up, dalle indicazioni sull’alimentazione al cambio di stile di vita. Sempre in un rapporto dell’OMS, si stima che l’aderenza di chi ha una malattia cronica sia del 50%. Maggior aderenza significa anche minore ospedalizzazione, minori complicanze associate alla malattia, maggiore sicurezza ed efficacia dei trattamenti e riduzione dei costi per le terapie.
Secondo MOSAICO, una ricerca condotta nel 2015 da Doxa Pharma sull’aderenza alle terapie nelle malattie autoimmuni promossa dall’ANMAR, AMICI Onlus, ANAP Onlus anche grazie al contributo incondizionato di AbbVie, c’è qualcosa che ancora non funziona nell’alleanza tra medico e paziente. Dai dati emerge che il 25% delle persone con malattie come artrite reumatoide, spondilite anchilosante, malattia di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi e artrite psoriasica decide di sospendere i trattamenti per un periodo o in modo definitivo. Il rapporto di fiducia che si instaura tra il curante e il malato, quindi, è uno dei primi aspetti da indagare in modo sempre più serrato, esplorando la real life, la vita vera, di chi si trova a fare i conti con la malattia, ogni giorno. Questo permetterebbe di comprendere sempre meglio dove sta la falla che impedisce l’aderenza alla terapia. Altrimenti siamo di fronte a un cane che si morde la coda.
Ma non è tutto: una migliore aderenza alle terapie, sempre stando a quanto riportato dal CIAT, garantirebbe anche un risparmio di 11,4 miliardi di euro all’anno al nostro Paese. Sull’onda di questo aspetto, il CIAT ha proposto l’istituzione di una Giornata Nazionale dedicata all’Aderenza Terapeutica, il 12 aprile, giorno in cui si ricorda il medico campano che ha dato la sua vita ai pazienti, Giuseppe Moscati, e che è al centro di un disegno di legge presentato in Senato dal Presidente della Commissione Igiene e Sanità, Pierpaolo Sileri. Obiettivo: sensibilizzare i cittadini e le Istituzioni. «Il problema dell’aderenza riguarda in particolare gli anziani, infatti l’11% degli over 65 (circa 1 milione e 500mila persone in Italia) deve assumere ogni giorno 10 o più farmaci», afferma Vincenzo Mirone, responsabile scientifico del CIAT: «Il lavoro da fare per migliorare i comportamenti dei pazienti è ancora tanto: in particolare, in Italia, solo il 57,7% dei pazienti aderisce ai trattamenti antipertensivi, il 63,4% alle terapie ipoglicemizzanti per la cura del diabete, il 40,3% alle cure antidepressive, il 13,4% ai trattamenti con i farmaci per le sindromi ostruttive delle vie respiratorie e il 52,1% alle cure contro l’osteoporosi. Percentuali che non hanno subito variazioni di rilievo nel corso degli anni, con notevoli costi clinici e sociali».
Che cosa si potrebbe fare, in concreto, per una migliora aderenza alla terapia? «Qualche anno fa, con grande amplificazione mediatica, si parlò della ipotetica immissione in commercio di un preparato dal nome di "Polypill" pensato per la prevenzione secondaria della cardiopatia ischemica e contenente nella stessa compressa di un ACE-inibitore, di ASA, acido folico e una statina. L'immissione in commercio non è mai avvenuta in Italia, ma avrebbe avuto probabilmente un enorme "successo" tra i consumatori di quei farmaci che già assumono in modo separato, perché il nodo principale della mancata aderenza al trattamento - diciamo la verità - è proprio la politerapia», rimarca Stefano Stisi, Direttore dell’Unità di Reumatologia dell’Ospedale Gaetano Rummo di Benevento e past president del CReI, il Collegio Reumatologi italiani. «Le malattie, nella nostra società ricca e complessa, dove la cura di sé si esprime in un approccio polispecialistico e politerapeutico, necessitano di una grande motivazione al fine di mantenere una aderenza sufficiente. Ad aggravare la complessità si è persa completamente di vista la centralità del medico generale, cosicché ogni specialista prende in carico la patologia e non l'individuo. Il risultato è una bassa aderenza causata dalla complessità della politerapia della cronicità». In sostanza, il nodo da sciogliere affinché tutto funzioni, sostiene Stefano Stisi, sta proprio nel conoscere la vita vera del malato, la cosiddetta real life. E ognuno può raccontare la sua a un curante che sa fare sfoggio di una delle doti più umane: l’empatia.