Intervista al prof. Galiè sulle linee guida sulla PAH
Martedi 16 Marzo 2010
Sono state da poco pubblicate le nuove linee guida sull'ipertensione polmonare, possibile complicanza di alcune patologie del tessuto connettivo. Abbiamo chiesto al professor Nazzareno Galiè, opinion leader di fama mondiale in questo settore e curatore delle linee guida, di illustrarci le novità più significative e di fare il punto della situazione nell'ottica del reumatologo.
Professor Galiè, perché questa nuova edizione delle linee guida? Quali erano le necessità di aggiornamento rispetto alle precedenti, datate 2003*? Innanzitutto, il contesto è quello di una malattia rara: in Italia, circa 3.000 casi, che includono tutti i tipi di ipertensione polmonare; di questi solo un 20-30% sono soggetti con malattie reumatologiche del tessuto connettivo. Proprio perchè rara, è importante dare indicazioni precise anche ai medici che non si occupano in maniera specialistica di questo ambito, gestito in genere da pochi centri di eccellenza, in modo tale che il percorso del paziente dalla diagnosi fino alla terapia più avanzata sia preciso e coordinato. Trattandosi poi di una patologia multidisciplinare, che può interessare non solo il reumatologo, ma anche il cardiologo, lo pneumologo, il gastroenterologo, è essenziale un coordinamento tra questi specialisti per poter gestire al meglio la complessità di questi malati. L'aggiornamento si è reso necessario anche alle luce della comparsa di numerose novità diagnostiche e terapeutiche. Per esempio, ai tempi delle precedenti linee guida, di fatto le prime in questo settore, i farmaci specifici approvati per il trattamento dell'ipertensione arteriosa polmonare erano soltanto due, ora sono diventati sette.
La prima grossa novità consiste nella identificazione di sei diversi gruppi di pazienti. Come mai questa distinzione? La classificazione è simile a quella precedente, ma in questa nuova edizione si sottolinea l'eterogeneità clinica dell'ipertensione polmonare, che di per sé non è una malattia, ma una condizione fisiopatologica che può manifestarsi in molte situazioni cliniche. La distinzione è fondamentale perché i farmaci approvati specificamente per l'ipertensione polmonare riguardano solo un gruppo di questi sei, quello dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa polmonare (il gruppo 1). Gli altri possono non solo non trarre beneficio da questi agenti, ma esserne addirittura danneggiati. I pazienti con malattie reumatiche possono sviluppare diverse forma di ipertensione polmonare, ragion per cui, per questi soggetti, è assolutamente indispensabile un iter diagnostico appropriato, di cui una corretta classificazione è presupposto fondamentale. Le nuove linee guida presentano innanzitutto un algoritmo diagnostico molto dettagliato, che è a sua volta conditio sine qua non per la successiva applicazione dell'algoritmo terapeutico più appropriato: infatti, non ne ce n'è uno solo valido per tutte le forme, ma ne esistono diversi a seconda del tipo di ipertensione polmonare.
Quali sono le novità più rilevanti in ambito diagnostico? Le linee guida hanno introdotto diversi concetti nuovi in questo senso. Innanzitutto, un'indicazione precisa e puntuale per l'esecuzione del cateterismo destro, il test emodinamico che consente di avere la conferma diagnostica indiscutibile di ipertensione arteriosa polmonare. In base al valore di pressione polmonare riscontrato all'ecocardiogramma e ad altri dati clinici, vi sono indicazioni precise e dettagliate (che possono essere molto utili ai cardiologi) su come comportarsi: se continuare con un follow-up ecocardiografico, se eseguire il cateterismo destro oppure pensare a un altro tipo di ipertensione polmonare. Al di là di questo, è descritto un iter diagnostico successivo molto puntuale per definire i percorsi ottimali per arrivare alla diagnosi definitiva.
E sul fronte della terapia? Qual era la situazione nelle linee guida precedenti? Nel 2003, ai tempi della Consensus conference di Venezia, da cui sono scaturite le prime linee guida vere e proprie, i farmaci disponibili per la terapia dell'ipertensione arteriosa polmonare erano soltanto due: enoprostenolo e bosentan. L'enoprostenolo, entrato per primo nell'armamentario terapeutico, è una prostaciclina sintetica ad azione vasodilatatoria, somministrata 24 ore su 24 attraverso un port o un catetere venoso centrale (CVC). Un significativo passo avanti è stato fatto con la registrazione di bosentan, che è stato il primo farmaco orale approvato per questa condizione e il primo appartenente alla classe degli antagonisti del recettore dell'endotelina, la molecola responsabile principale della vascostrizione e della disfunzione endoteliale alla base della malattia.
Cos'è successo dal 2003 in avanti? Si sono aggiunte via via nuove molecole, tanto che oggi disponiamo di ben sette farmaci specifici per il trattamento dell'ipertensione arteriosa polmonare propriamente detta. Nel 2004 è arrivato iloprost, un altro analogo della prostaciclina, con meccanismo d'azione simile all'enoprostenolo, ma somministrato per via inalatoria. A questo si è poi aggiunta nel 2007 un'altra prostaciclina sintetica, treprostinil, somministrata 24 ore su 24, ma per via sottocutanea, e quindi in modo più semplice e maneggevole rispetto all'epoprostenolo. Tra il 2007 e il 2008 è stato invece approvato l'uso del primo inibitore della 5 fosfodiesterasi (5PDE) sildenafil, il noto principio attivo del Viagra, che inibisce il catabolismo del GMP ciclico, determinando un rilassamento del letto vascolare polmonare. All'inizio del 2009, sono stati quindi registrati altri due antagonisti recettoriali dell'endotelina, "cugini" di bosentan, anch'essi ad azione vasodilatatoria: sitaxentant e ambrisentan. Inoltre, è già da poco stato approvato dall'Emea come trattamento specifico per l'ipertensione polmonare anche tadalafil, un altro inibitore della 5PDE.
Al di là della disponibilità di nuovi farmaci, è cambiato qualcosa nell'approccio terapeutico? Certamente. In primo luogo, poiché fino a pochi ani fa i farmaci disponibili erano ritenuti solo palliativi per soggetti affetti da una condizione considerata "incurabile", i pazienti venivano trattati solo in una fase molto avanzata di malattia (in classe 3-4 della classificazione NYHA), iniziando con uno qualunque dei farmaci a disposizione e poi, nel momento in cui questo perdeva di efficacia, sostituendolo con un altro, fino ad arrivare, come ultima spiaggia, al posizionamento di un CVC per somministrare l'epoprostenolo. Le nuove linee guida, invece, dicono innanzitutto che il paziente deve essere trattato quanto più precocemente possibile, in prima battuta con un antagonista recettoriale dell'endotelina (oppure con un inibitore della 5PDE, a scelta del medico. Inoltre - altra novità sostanziale - quando il paziente peggiora, non si segue più il vecchio approccio di sostituzione, ma si passa a una terapia di associazione, indipendentemente dal primo farmaco utilizzato, in modo da colpire tutti i vari aspetti fisiopatologici della malattia e ritardare il più possibile il trapianto. Terzo cambiamento fondamentale: è stata codificata in modo preciso la possibilità di stabilire quando il paziente ha una risposta clinica inadeguata al primo farmaco e diventa quindi necessaria la terapia combinata. L'obiettivo chiave, dunque, è agire rapidamente, utilizzando tutte le armi a disposizione. E' ragionevole aspettarsi un miglioramento della prognosi per questi malati? Fino a una decina di anni fa, l'ipertensione arteriosa polmonare era ritenuta assolutamente incurabile e un paziente affetto dalla forma idiopatica aveva un'attesa media di vita di 2,8 anni, che si riducevano a un anno e mezzo in coloro che sviluppavano la malattia come complicanza della sclerodermia. Gli studi di sopravvivenza disponibili ad oggi, seppure pochi ed eseguiti solo con bosentan, hanno dimostrato che i pazienti trattati con questo farmaco hanno ottenuto un raddoppio della sopravvivenza. Alla luce dell'attuale possibilità di ricorrere alla terapia combinata, nel momento in cui questa sarà entrata a far parte della pratica clinica, è ragionevole aspettarsi un ulteriore miglioramento della prognosi e sperare addirittura in un arresto della progressione della malattia.
Come lei ha ricordato, l'ipertensione polmonare è una delle possibili complicanze di alcune connettivopatie, tra cui la sclerodermia? Qual è la base questo legame? Per ora non si sa con certezza. Sono state avanzate alcune ipotesi. Tra queste, la possibilità che alla base di questa condizione vi sia un danno di origine immunologica dell'endotelio che riveste i vasi del microcircolo polmonare. Questo, a sua volta, causerebbe un danno ad altre cellule della parete vasale, che risponderebbero con una proliferazione eccessiva, portando a una progressiva ostruzione del vaso. La riduzione della microcircolazione fa poi aumentare la resistenza all'afflusso di sangue al ventricolo destro, provocando infine uno scompenso del cuore destro. Purtroppo non si sa ancora perché, a parità di caratteristiche della malattia reumatica, alcuni pazienti sviluppano questa complicanza e altri no. Un aumento delle conoscenze in questo senso è indispensabile per mettere a punto ulteriori terapie, più mirate ed efficaci.
Si può prevenire lo sviluppo dell'ipertensione polmonare in questi malati? Purtroppo no, anche perché non si sa a priori quali pazienti svilupperanno questa complicanza e quali no e ed è impossibile dare farmaci a tappeto a tutti. Anche perché le tecniche diagnostiche più moderne hanno permesso di capire che l'incidenza di questa complicanza, per fortuna, non è così alta come si pensava in passato. Per esempio, nella sclerodermia, la condizione reumatologica in cui l'ipertensione polmonare si manifesta più facilmente, è inferiore al 10%.
Quale ruolo per il reumatologo? E fondamentale innanzitutto per ottimizzare la terapia propria della malattia del tessuto connettivo e poi, naturalmente, nel follow-up del paziente. Infatti, il riscontro dei segni iniziali di una possibile patologia del sistema cardiovascolare, la comparsa di dispnea da sforzo, di astenia o di qualunque condizione che riduce la capacità funzionale del paziente deve far sorgere il sospetto di ipertensione polmonare e portare all'esecuzione di un ecocardiogramma. Se l'esame conferma la presenza di ipertensione polmonare, si deve passare al successivo iter diagnostico più approfondito, indicato chiaramente nelle linee guida, per identificare il tipo di ipertensione polmonare del paziente.
Ci sono dei segni premonitori della malattia da osservare con maggiore attenzione? Come abbiamo detto sopra, qualunque cambiamento della capacità funzionale del paziente: un paziente che riferisce di fare più fatica a fare le scale rispetto al passato, di sentire più affanno o lamenta una diminuzione della resistenza allo sforzo deve indurre in allarme. Queste sono le fasi iniziali delle manifestazioni sintomatologiche della malattia. E' importante evidenziarle per tempo e indirizzare rapidamente il paziente all'ecocardiogramma che è il primo esame di screening per la conferma o meno della presenza di ipertensione polmonare. Come devono interagire il reumatologo e i centri specializzati nella terapia dell'ipertensione polmonare? Questo è un punto cruciale. E' indispensabile una piena collaborazione perchè i pazienti con connettivopatie e concomitante ipertensione polmonare devono assolutamente essere seguiti con un approccio multidisciplinare. Sono in genere soggetti sottoposti a terapie di tipo immunologico, sulle quali, naturalmente, è il reumatologo ad avere piena competenza. D'altra parte, solo i centri specialistici che dovrebbero seguire i pazienti con ipertensione polmonare hanno le conoscenze necessarie sui farmaci specifici per questo disturbo. Dato che i farmaci per le due condizioni devono essere associati e che sono possibili interazioni farmacologiche, la comunicazione e la cooperazione tra specialisti di ipertensione polmonare e reumatologi, ognuno con le proprie competenze e i propri compiti, è assolutamente imprescindibile per la gestione più appropriata di questi malati.
Quali sono, in Italia, i centri di eccellenza per la gestione di questi pazienti? Storicamente, in Italia, i centri che si occupano da tempo di ipertensione polmonare, anche da prima che fossero disponibili farmaci specifici, sono tre: oltre al centro di Bologna di cui sono responsabile, presso il Policlinico S. Orsola-Malpighi, ci sono quello dell'Università La Sapienza di Roma e quello del Policlinico San Matteo di Pavia. Da un po' di tempo, però, si sta assistendo a una proliferazione di gruppi che si occupano della malattia, il che non è un bene per i pazienti, perché finiscono per avere casistiche troppo ridotte e non hanno la massa critica sufficiente per fare ricerca. Tra le altre cose, le nuove linee guida specificano i requisiti minimi necessari perché un centro possa essere ritenuto specialistico per l'ipertensione polmonare. Tra questi figura appunto il numero di pazienti, che, per quanto riguarda l'ipertensione arteriosa polmonare propriamente detta, non deve essere inferiore a 50-100. La situazione italiana, purtroppo, è al momento abbastanza frammentata; occorerebbe invece una maggiore centralizzazione, che però non è semplice da ottenere.
Prospettive future? Queste linee guida vanno ora implementate e migliorate. Si tratta di sì di un documento fonte di indicazioni operative, ma nello stesso tempo di un documento ancora in fieri, che richiede ulteriori affinamenti, anche perché non abbiamo trovato la soluzione definitiva per questa malattia. Stiamo cercando di ottimizzare le terapie esistenti, ma c'è bisogno di fare ancora molti studi e di ulteriori progressi.